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mercoledì 31 marzo 2010

Le mie notti bianche





notte prima.

avevo avuto anch'io una giornata strana. quando sei in vacanza il mondo appare ovattato, il tempo prezioso, e sembra che tutti abbiano qualcosa di bello da fare.
ma dove sono tutti? senza dubbio, si divertono da qualche parte senza di me.
via del corso appariva stranamente tranquilla, di macchine neanche una, sembrava lo scenario di uno di quei film in bianco e nero con sofia loren, quando le persone potevano ancora parlarsi da un lato all'altro del marciapiedi.
ma nessuno parlava con me.
essere soli è fastidioso
essere soli in mezzo alla gente è straziante.
in quel periodo avevo ancora un cellulare e, come accadeva spesso, mi misi a frugare nella lista dei contatti cercando qualcuno da contattare.
di cento e più nomi, qualcosa di ogni volta diverso mi spingeva a desistere dal chiamare.
la mia marcia continuava, iniziavo già a intravedere l'altare della patria. frotte di turisti delle più disparate nazionalità mi circondavano, fieri dei loro occhiali da sole appena acquistati e del poter girare in manichette corte.
ma poi perchè quando si va in vacanza si comprano sempre occhiali da sole? perchè il turista - che sia in villeggiatura un mese o un solo giorno - deve per forza di cose coprirsi le pupille?
il sole vacanziero brilla più forte, evidentemente.
io gli occhiali da sole non li avevo. pesavo ogni mio sguardo, perdendomi nelle chiome delle passanti e nei discorsi di chi aspettava un autobus o un amico. o entrambe le cose.
mi stavo avvicinando alla zona del colosseo, quando, preso da un incontenibile disgusto per l'accademico ed il classico, tornai sui miei passi, andando a salutare il tritone.
giunsi davanti quella statua austera e goffa allo stesso tempo, chissà quanti passanti ha salutato, quante volte è stato punto di riferimento per cinesi spaesati che per distrazione o scemenza si erano persi! qualcuno si è mai baciato sotto di te, tritone? qualcuno ha mai pensato di accarezzarti, dopo averti fatto una fotografia? se fossi una statua, credo proprio che sarei felice se qualcuno ogni tanto mi accarezzasse.
fu un lampo, un attimo. le mie fantasie alienanti non solo mi avevano fatto oltrepassare il tritone senza nemmeno concedergli una carezza, ma avevano anzi fatto scorrere il sole giù, oltre l'orizzonte malcelato dai palazzi quiriti.
la mia notte iniziava qui, anima fuggente dal sapere classico, dalla marmorea e crudele bellezza, che si accingeva a cedere il posto al grigio e fiero metallo, alla gomma bruciata, alla velocità, alla bomboletta spray.
una M bianca a sfondo rosso mi guidò come un faro in questo mare di passanti che, come già detto, sembrava avessero un sacco di belle cose da fare.
presi la scalinata, il mare divenne oceano.
più scendevo gli scalini, più la temperatura aumentava, stavo varcando le soglie della città di Dite.
Già, perchè sotto terra vive un mondo parallelo: un mondo fatto di strani cartelloni, cappucci tirati su, personaggi bizzarri, inquietanti predicatori, rumori, singulti e tanti, tanti passi.
il neon costrinse le mie pupille ad una dilatazione improvvisa e inaspettata - tanto che avrei voluto avere gli occhiali da sole - mentre la mia attenzione veniva catturata dalle mille scritte che coloravano il muro. un gruppo di equadoreni discuteva animatamente con quel loro fluire di parole strano e morbido , spingendo chissà per quale motivo il mio polso a tuffarsi nella tasca della felpa, estraendo le cuffie. le mie.
di nuovo, il mio correre col pensiero mi aveva distaccato dalla camminata fisica, e mi trovai davanti al binario, finchè un enorme bara di metallo si fermò davanti a me, spalancando le sue fauci e lasciando fuggir via decine e decine di anime prave, tutte con qualcosa da fare. tutte con un programma sicuramente più entusiasmante del mio.
entrai, mi misi a sedere.
il mezzo partì con rumori cadenzati, il mio viso, il mio occhio si moltiplicò davanti ai miei innumerevoli me sul vetro, nuovamente, l'istinto spinse l'indice a premere "PLAY" ed a tirar su il cappuccio di quella felpa comprata chissà quando.

"tum dum dum dum
i'm the son of rage and love
tum dum dum dum
the jesus of suburbia
From the bible of none of the above
On a steady diet of soda pop and Ritalin
taratta tararararatta
tum dum dum dum
No one ever died for my sins in hell
tum dum dum dum
As far as I can tell
At least the ones I got away with
And there's nothing wrong with me
This is how I'm supposed to be
In a land of make believe
That don't believe in me"

eccomi, sono io. quello che nella terra dei credenti non crede in me.
la metro parte e si ferma, vomitando ed inglobando anime senza sosta, un caronte metalizzato che voga in uno stige artificiale.
"prossima fermata: Cocito"
Caronte si ferma di nuovo, lo colgo di sorpresa, saltando giù all'ultimo secondo. lui mena fendenti con i suoi remi futuristici, porte scorrevoli che non risparmiano arti umani indecisi.
sono fuori.
cioè, sono fuori dalla metro, ma sono dentro la stazione.
reclame pubblicitarie mixate ad annuncio ritardo treni provano a soffocare la musica che mi bombarda le orecchie: evidentemente sono sceso a Termini. procedo di qualche passo, finalmente riconosco dove mi trovo: un brandello di muro a me familiare è lì, ad osservarmi, dice
"HO MESSO LA TESTA A POSTO MA NON RICORDO DOVE"
vado oltre, le mie gambe camminano da sole, mentre cerco di ricordare dove abbia messo la testa, forse nemmeno è a posto. forse avere la testa a posto è impossibile. o forse tutti ce l'abbiamo a posto, ma ognuno vive una definizione diversa di "a posto" .
non so.
le prime stelle timidamente spuntano, ma questa è solo un ipotesi, visto che le luci della città sporcano il cielo, coprendolo con un alone che sembra quasi radioattivo. anche qui, la strada è semideserta, poche persone si muovono in entrambi i sensi di marcia, ma innumerevoli vivono paralizzate nei loro abitacoli, imprecando semafori, vigili, vecchiette che attraversano, navigatori impazziti, figli affamati nel sedile dietro e quell'mbecille che per piazzare una panda ha occupato tre posti.
è davanti a quella panda, che ci incontrammo.
di solito i grandi eventi, gli incontri importanti e poetici avvengono sulle rive di fiumi, all'ombra di storici monumenti, all'interno di panorami da urlo.
noi due ci incontrammo di fronte ad una panda parcheggiata male, verde detersivo del LIDL, in mezzo ad uno spiazzetto conosciuto solo ad anziani vecchietti per farci cagare i bastardini o marocchini per venderci hash.
hai urlato.
ed io ho tolto le cuffie.

"eh?"
"oh no, scusami. mi sono sbagliata. pensavo fossi un altro"
"ah.."
"va beh, io vado eh. ciao"
"......."

tanti capelli. capelli sciolti, fluenti, sottili e anarchici.
capelli setosi, capelli morbidi.capelli che raccontavano di tappeti indiani, montagne vergini, sensazioni sconosciute, profumi peccaminosi e nero come non è mai stato. capelli da morirci dentro.
quei capelli si erano voltati ed erano spariti, lasciandomi lì, in mezzo ad uno spiazzetto conosciuto solo da anziani vecchietti per farci cagare i bastardini, marocchini per venderci hash, e te.
quanto trovavo accogliente quell'angolo di paradiso!! le piante rinsecchite riaquistavano vigore, la debole luce arancione proveniente dai lampioni non denotava più lo squallore della periferia, ma ricordava il colore dei campi d'agrume in fiore. i pusher erano diventati mercanti delle terre dell'est, coi loro turbanti ed i bazar multicolore.
quanto era bello, quellangolo di paradiso!!

Andrea Straniero

2 commenti:

  1. Luisa Boeri

    Bizzarra, se non pazza. Bella la metafora della metrò come bara metallica che ingloba e vomita anime. La descrive bene.
    Ma Questa volta è solo un racconto, raccontato benissimo, ma solo un racconto.

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